Voglio parlarti di cibo e amore, ma per farlo dovrò partire dalle origini: seguimi, perché partirò dall’infanzia. Anche dalla tua, si! Dunque, il bambino ha una predisposizione innata a sviluppare una relazione significativa nei confronti di chi si prende cura di lui. Si chiama ATTACCAMENTO.
Si attiva quando il bambino sperimenta paura o senso di pericolo, decade solo quando il bambino si sente al sicuro. Per far si che il bambino sperimenti una sensazione di tranquillità e benessere, è necessario che nella figura dell’adulto di riferimento si attivi il sistema di ACCUDIMENTO. I primi anni di vita sono fondamentali per la costruzione del legame di attaccamento, che può declinarsi in varie forme, a seconda di come si sono mescolati tutti questi fattori. L’attaccamento cosiddetto “sicuro” vede una madre che si attiva: il suo cervello organizzato si sincronizza con quello non ancora organizzato del figlio, proteggendolo e quindi accudendolo; il bambino così, impara a fidarsi e ad essere consolato.
Esperienze passate del genitore, non rielaborate, e ad alto indice impattante sulla sfera emotiva (abusi, malattie, lutti, abbandoni, maltrattamenti, dipendenze…) possono riattivarsi proprio nel momento in cui si diventa genitori e ci si prende cura dei propri figli.
I traumi del genitore nell’accudimento del figlio

Il genitore, in modo inconsapevole, trasmette tracce dei propri traumi nelle strategie di accudimento.
Un esempio: Simona diventa mamma, ed è l’evento più felice della sua vita. Quel figlio è stato cercato, desiderato, la gravidanza è stata meravigliosa, un idillio emotivo e narrativo; ma… ad un certo punto, nota che non sopporta il pianto del suo bambino, è un elemento non solo fastidioso ma disorganizzante. Tutte le volte che inizia, Simona va nel pallone, non sa cosa fare, si dispera e pensa di essere una pessima madre: sappiamo tutte che questo pensiero è molto comune, tant’è che qui su Oggi Mi Sento gli abbiamo dedicato una sezione che vi consiglio di consultare QUI.
Concretamente mette il ciuccio subito in bocca al suo piccolino, lo tiene sempre in braccio per non farlo piangere, anticipa tutti i suoi bisogni pur di non entrare nel loop del pianto. Perché questa giovane donna si comporta così? Cosa la spinge a non tollerare il pianto? Lei quel bambino l’ha voluto fortemente.
Nel tempo le cose peggiorano e Simona infastidita dal pianto sempre di più comincia a non rispondere, si allontana, delega a qualcun altro. Non lo sopporta più. Non tiene più in braccio il bambino e si immerge nel lavoro, fino a quando la situazione non diventa ingestibile, un po’ per tutto il sistema familiare. Allora arriva in consulenza, e lì, nella stanza della terapia, emerge come il dolore del bambino non potesse essere tollerato in quanto in Simona si era riattivato il trauma della violenza, dei pianti, l’angoscia di tutte le volte che assisteva alle discussioni molto violente dei suoi genitori, di tutte le volte che il padre picchiava la madre.
Lavorando su quei traumi Simona rinasce come persona e come madre e riesce a riorganizzarsi e riorganizzare le sue parti emotive, e anche quelle del figlio.
Correlazioni: traumi, cibo e amore
Perché parliamo traumi non rielaborati e di attaccamento se in realtà ci stiamo occupando in questo articolo di disturbi alimentari? Molte ricerche ormai hanno evidenziato che nei soggetti che presentano DCA (Disturbo del Comportamento Alimentare) è presente in molti casi uno stile di attaccamento insicuro. Tra i vari scambi madre-bambino l’alimentazione rappresenta uno dei momenti fondamentali. L’identità corporea stessa si forma all’interno delle prime relazioni con le figure di attaccamento.
Esperienze negative sull’accudimento e nella relazione con l’altro, possono portare a distorsioni della propria identità, del proprio modo di “sentirsi” e percepirsi. La maggiorparte dei DCA soffre anche di Alessitimia, ovvero la fatica nel riconoscere e nell’esprimere le proprie emozioni, e soprattutto nel riconoscere i propri stati interni (fame, sazietà…).
Per ovviare a queste fatiche, le persone possono scivolare nel versante della dipendenza: la continua ricerca di conferme per “capire” come si sta nel mondo, o se quello che sento è reale, giusto, sicuro. Il rapporto problematico con l’alimentazione ci riporta in modo prepotente a una difficoltà nel rapporto con l’altro.
Apprendi a riconoscere il tuo stile di attaccamento
Conoscere il proprio stile di attaccamento, capire nella propria vita quali sono stati, se ci sono stati, i traumi, e rielaborarli, sono aspetti molto importanti della presa in carico da parte del terapeuta.
Aspetti che ci permettono di uscire dal Disturbo Alimentare. Tu conosci il tuo stile di attaccamento? Quali traumi hai ereditato e quali non hai ancora rielaborato?
Cibo e amore in quest’ottica diventano fortemente interconnessi. Ecco come il disturbo alimentare, in molti casi, ha ben poco a che vedere “solo” con la dieta o con l’immagine della modella sulla passerella. Se vedi che fai fatica con l’alimentazione, se ti rispecchi in quello che è stato appena scritto, non esitare a chiedere aiuto, anche se è “solo una fissa con la dieta”, anche se è “solo un pensiero fisso che però gestisco”. Quando il pensiero rimane fisso sul cibo e cosa mangiare, quando fai pasticci restringendo o abbuffandoti, quando riversi tutti gli aspetti emotivi sul cibo, quando il chiodo fisso è la paura di ingrassare, quando non ti piaci fisicamente e eviti tutti gli specchi: chiedi aiuto. Potresti capire le dinamiche e i significati profondi che si nascondono dietro ai “sintomi alimentari” e quindi risolverle e rielaborarle.
Chiedi aiuto, te lo meriti. E se non pensi di meritartelo, chiedere aiuto è il primo passo verso la cura di se stessi.
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– vuoi cambiare l’immagine e l’idea che hai di te;
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– a volte fai pasticci con il cibo e le diete;
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